
Presentazione del romanzo Vivid, di Uroš Ristanović
A due anni di distanza dalla raccolta di poesie Sutra (Domani), apparsa nel 2018, Uroš Ristanović si ripresenta al pubblico con il suo primo romanzo, Vivid. Colta da una più ampia prospettiva, l’opera è sicuramente da intendersi come un contributo di rilievo alla letteratura e alla cultura serba, con dei richiami alla Vienna dei tempi recenti, mentre per quel che ci riguarda è d’obbligo invece sottolineare l’importanza rivestita da Uroš nella vita della nostra rivista, sin dai suoi esordi. Ed è questa la ragione per la quale è assai difficile parlarne con la necessaria obiettività, anche se ci siamo sforzati di penetrare negli angoli più riposti del romanzo, nel tentativo di avvicinare quei lettori che non hanno ancora avuto il modo di entrare in confidenza con l’autore e con la poetica di cui è espressione. È bene avvertire che nel corso della presente intervista non mancheranno degli espliciti riferimenti a talune delle vicende racchiuse nella narrazione, ed è perciò consigliabile affrontarne al più presto la lettura.
Ti descrivono come un poeta e un prosatore della giovane generazione, e tuttavia il romanzo non sembra rispecchiare un tono propriamente “giovanilistico”. L’infanzia, da intendere come luogo d’esilio e destinazione finale, è uno degli elementi fondanti del tuo percorso. Come lo spieghi?
Porrei l’accento sulla parola “finale”. L'infanzia, nel romanzo, è per davvero la meta risolutiva, paragonabile, quasi, ad una località esotica, in cui il protagonista, una volta, è capitato e che si presenta, ora, come una obiettivo da riconquistare. L’infanzia, tuttavia, come inevitabilmente accade, è irrecuperabile. Ad impedirlo non è soltanto lo scorrerere inesorabile del tempo, che è un dato, com’è ovvio, incontrovertibile, ma anche l’insieme delle inezie, delle manie, dei pensieri e delle relazioni che resta comunque inaccessibile anche al più abile degli archeologi. Nel romanzo non compaiono delle attrezzature elaborate, perché l’itinerario del protagonista è scandito dai suoi tentativi di ripescare, rovistando nella sabbia, i ricordi e le impressioni, spesso variopinte, fradicie e levigate dal mare, di stanche e remote sere d’estate. Al protagonista non serve una scavatrice, è sufficiente una banale paletta da spiaggia.
A che cosa ti sei rifatto per ''colorare'' i capitoli?
Anche se inizialmente ho immaginato Vivid come un insieme di sfumature disposte in sequenza, l'idea di ''tinteggiare'' i capitoli mi è venuta solo alla fine, e così ogni capitolo ha ottenuto una distinta coloritura. L'idea era che tutti i colori dovessero provenire dalla tavolozza di Zorn, ma poi mi sono deciso per dei colori più vibranti, come se fossero delle gocce sull’intelaiatura del cavalletto, qui raccoltesi dopo aver chiuso la stesura del romanzo. Anche se ho rinunciato alla celebre tavolozza dei vecchi maestri, credo che l’approccio sinestetico abbia preservato una sia pure vaga allusione ai classici della pittura e della letteratura. Per dirla in parole povere: se le procedure sono di vecchia scuola, la pigmentazione odora di freschezza.
Se si considera che nel romanzo l’ambiente fieristico si contrappone a quello naturale e che entrambi sono elevati a sede di importanti intrecci, benché sia nel primo che venga ad emergere l’intima essenza delle cose e degli accadimenti, in quale dei due, a tuo avviso, il protagonista si sente maggiormente a suo agio?
È la natura ad offrirgli maggiori occasioni di trasporto, anche se è nel quadro della fiera a dar prova di sapersela cavare con maggiore disinvoltura. Credo che ad essergli più congeniale sia una fiera di paese, perché nelle fiere paesane succede spesso di dover sguazzare nel fango.
Di grande rilievo è il motivo del gioco, che si manifesta anche nel sogno. Chi sarebbe il piccolo sceriffo? È riuscito nell’intento di erigersi a difesa della città?
Le parole del piccolo sceriffo sono l’unico punto del romanzo che si limita a trascrivere fedelmente delle parole che sono state pronunciate per davvero. A proposito di questo ragazzo non saprei aggiungere nulla di più rispetto a quello che egli stesso ha di se stesso rivelato: è l'unico sceriffo sopravvissuto nella città, il solo ad essere rimasto in quella desolazione ed il solo capace di trasformarla in qualcosa di bello. Non so altro, e so anche di non aver mai dubitato delle sue esternazioni, quando l’ho incontrato in un parco di Belgrado. Riguardo l’altro quesito, ritengo che se si proponesse sul serio di difendere la città, sarebbe perfettamente in grado di farlo. E tuttavia penso che la sua legittimazione non risieda nell’ipotetico conferimento di una medaglia, bensì nell’attitudine di conferire bellezza alla dimensione urbana. Se possa riuscire nell’intento, non lo so, ma sono certo che si tratta di una sensazione che nel deserto insorge al momento del crepuscolo e che tutti, almeno una volta, ne siamo stati colti e che l’abbiano poi dimenticata.
Quello della strada smarrita è un altro dei motivi ricorrenti in ambito letterario e per te sembra assumere il significato di un passo indispensabile in direzione della maturità. Per quale ragione il protagonista ha abbandonato la fiera?
E come avrebbe potuto rimanerci?
Viene da pensare che sei incline ad esaltare la figura del mestierante, dell’artigiano, dell’artista: non pare casuale che a salvare il ragazzo sia stato proprio uno scultore...
Sono figure che esalto, sì, perché rendono il mondo più pratico e più bello. Assegno il medesimo valore tanto all'olio dei meccanici quanto a quello dei pittori. E' chiaro che i meccanici cui rendo omaggio non sono quelli della canzone Majstori u kući (I meccanici in casa) di Aleksandar Sekulić, perché i miei meccanici non si dedicano ad altri compiti che a quelli che da sé si sono imposti. È il caso dell’anzidetto scultore. E perché mai scultore, piuttosto che pittore, o grafico, o magari chiropratico? Devo riconoscere che uno di costoro sarebbe stato forse più idoneo a rivestire il ruolo del salvatore, ma ho scelto uno scultore per la pratica modalità con cui viene a svolgersi l’attività che conduce. Quello dello scultore è di regola, infatti, un lavoro solitario, che porta spesso ad essere letteralmente sommersi, fino al collo, dai materiali adoperati, e che per di più non consente di velocizzare i tempi di realizzazione dell’opera e nemmeno di trascinarla con sé a promozioni varie o a sonnolenti serate mondane.
E alla fine che cosa fai, dopo che il ragazzo ti è sfuggito, come accade al terzo giorno di fiera?
Lo cerco ai margini della città o sulle rive, là dove il corso del fiume improvvisamente si incurva. Oppure in funivia, o nella profondità dei mari, o nelle viscere di miniere abbandonate quando piove. Raramente lo cerco nei libri, o nei libri rari. Non sono peraltro molti i luoghi in cui il ragazzo potrebbe fuggire e diventare, contestualmente, un eroe. Per questa ragione sarebbe inappropriato impedirne la fuga. Un valido consiglio sarebbe comunque quello di legare sempre la lunga fune del palloncino d’aria al polso del vostro ragazzo, in modo da potenziare le probabilità di ritrovarlo. Altrimenti mettetegli di nascosto in tasca un pezzettino di carta vetrata, una pinzatrice e un filo: sono cose che non serviranno a ritrovarlo, ma che gli torneranno utili, qualora gli capiti di perdersi.
Il cane è un motivo ricorrente in ambito letterario, e qui, assumendo dei contorni che traspirano innovazione, frutto di una scrittura digitalizzata, appare investito di un ruolo addirittura irrinunciabile. Il cane segue un persorso che, muovendo dal cortile e dalla realtà, attraverso l’immaginazione, approda ad Internet, e la sua verosimiglianza poggia sul resoconto fornito dal ragazzo, del cui punto di vista non è lecito dubitare. Si propone, qui di seguito, un brano tratto dal capitolo ''Il destino di un cane'', in cui il protagonista, in un frangente, prende commiato dagli sviluppi nella fiera al fine di rinviare il senso di soddisfazione che risposte ed emozioni gli procurerebbero, riuscendo a stare in bilico tra realtà e fantasia, senza rinuciare, nemmeno per un istante, alle sue descrizioni e al proposito di raccontarci tutto, di farsi sentire e di essere persuasivo. Una volta spezzate le catene, Vele, il cane del protagonista, dà inizio ad un viaggio pieno di avventure.
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Ciò che in seguito gli è successo non deve destare stupore. Sono cose che generalmente e per lo più accadono a chiunque se ne vada, e lui se n’è andato. Ed è meglio che tu lo sappia, era tutto pianificato. Dapprima c’è stato con uno scattante balzo oltre il canale dalla parte inferiore del cortile, ritentato più volte. Poi ci sono voluti esattamente tre chilomentri e mezzo per raggiungere la più vicina distesa. Attraversata l’area di caccia della volpe, tagliando quattro dense linee di mais, è arrivato d’un fiato al vecchio binario. Aveva già coperto una distanza come da qua al dismesso distributore verde, che si è ritrovato dinanzi ad un vecchio mulino ad acqua. Era il nostro taciuto accordo. Là gli avevo lasciato, nel corso di una delle mie devianti passeggiate, un sacchetto pieno di crocchette a forma di osso. Fatta colazione, s’è disteso per un riposino e per riflettere. Non doveva che scavalcare il ruscello, che poteva anche essere in piena, però quella era una nottata rischiarata dal plenilunio e il livello dell’acqua era basso. Vele l'ha capito, l’ha proprio capito, per davvero, ti dico, perché era solito abbaiare solo nelle notti senza Luna. Nelle notti d'acqua bassa saggiamente ammutoliva. Tutto era stato, a tempo debito, previsto e programmato.
Era già mattina inoltrata allorché ha raggiunto la tappa successiva. Di là, si sa, passavano i treni. È dovuto soltanto salire su uno di quei vagoni. Dirai che sto mentendo. Come fa un bastardino a prendere un treno?. Ma se avessi conosciuto Vele, non ne dubiteresti un secondo. Se avesse avuto dei pollici, sarebbe stato capace di intrecciare dei cesti e di fare le moltiplicazioni. E dove andasse il treno non importava, perché già si sapeva che di lì a poco un ragazzino se lo sarebbe preso con sé e che la fuga si sarebbe conclusa. E poi? Beh, è chiaro che ha smesso di essere un randagio. Solo in superficie può sembrare che nel vagabondaggio ci sia più libertà che in gabbia. La libertà era per noi come un cono gelato. Vele sapeva bene che dalla fuga in un prato non si ottiene gran che. La questione dell'indipendenza era una questione di condizioni. La sera prima della partenza, quando l'ho visto per l'ultima volta, non voleva nemmeno sentire il mio odore. Mi chiederai come faccia un cane a tenere il broncio. Ma così era Vele. Non si rattristava. Sapeva che tutto faceva parte di un disegno più grande al quale entrambi eravamo subordinati e che un giorno ci saremmo, quasi per caso, reincontrati.
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