La novella dell’inviolabile segreto custodito dalla cappella
(colloquio tra papa Giulio II e Giovanni de’ Medici, poi eletto al pontificato con il nome di Leone X)
Nel buio di una cappella a sprazzi rischiarata dal bagliore di tenui fiammelle e pregna di aromi emanati da candele rossastre se ne stava inginocchiato un giovane diacono. Le orecchie erano tese a cogliere l’eco ovattata di cori lontani che si infrangeva tra le mura della costruzione, mentre gli occhi inquieti fissavano atterriti una delle nove arcate che cingevano la volta, ove pareva che gli inferi stessi avessero aperto uno squarcio. Il collo pulsava e si contorceva in uno spasmo atroce ogni qualvolta sbirciava in alto, arrestando le sue preghiere e facendolo così cadere in grave peccato.
“Dòmine Dòminus noster”, si chiese, “quale sorta di maleficio è capace di tanto, da distogliere un Tuo devotissimo servo dagli insegnamenti che gli hai impartito?” Ed impietrito, quasi fosse stato soggiogato da un incantesimo che gli impediva di distrarre lo sguardo dal soffitto, con il cuore invaso dalla cupa disperazione, proruppe in un pianto sconsolato. Era da tempo immemorabile che aspettava un segno, quel segno che doveva cambiare l’intero corso della sua esistenza, ed ecco che il diavolo in persona era venuto ad annunciarsi, nascosto nella penombra, pronto ad aggredirlo non appena gli avesse voltato le spalle. Bisognava raccogliere le forze per alzarsi e scappare, per andarsene per sempre, e tutto tremante balzò in piedi con l’intento di guadagnare l’uscita. Non seppe però resistere, come già era accaduto a Lot, alla tentazione di girarsi e di lanciare un’ultima occhiata alla cupola sovrastante, e così facendo, d’improvviso, un sorriso sinistro gli si impresse sul volto. Si accasciò al suolo, in ginocchio, con le braccia spiegate. Il rosario gli sfuggì di mano e i suoi neri grani vetrati, scioltisi dalla catena, caddero rumorosamente sul duro pavimento di pietra e si dispersero per i quattro angoli della cappella, provocando un tintinnio che ricordava quello di migliaia di campane. I dodici rintocchi di un orologio accompagnarono lo schiudersi di un pesante portone in legno di noce e un fascio di luce accecante si abbatté con violenza sulla sagoma prostrata del diacono che a stento riuscì a distinguere, dinanzi a sé, i contorni incerti di una figura spettrale che, con movenze frenetiche ed eccitate, gli si stava avvicinando. Trattenne il respiro quando il mantello funereo gli rivolse la parola: “Giovanni, figlio mio, in nomine Patris, che cosa fa lì per terra?” Baciando l’anello della mano che l’inaspettato visitatore gli porgeva, il diacono, sempre più impaurito - la cerimonia dell’investitura non si era svolta ancora, e quel pontefice, sanguinario e meschino, poteva, con il semplice gesto di una benedizione, relegarlo nel calderone dell’inferno – incominciò a balbettare: “Beatissimo padre... Santi...”. Non gli fu concesso di portare a termine la frase. Giulio II, anch’egli con lo sguardo inquieto rivolto al soffitto, gli tappò la bocca con un libriccino. “Non mi resta molto tempo, figlio mio, Egli è già qui, eccolo, mi sta aspettando”, disse indicando in alto, in un angolo oscuro. Poi, con la voce strozzata in un lugubre lamento, quasi urlando, come fosse stato rapito dall’estasi, proclamò solennemente: “Ciò a cui stai assistendo è opera occulta del Signore, trasmessa per il tramite del pio maestro Michelagnolo. In essa è celato il secretum terribile come dono del Signore, così come (agitando il testo in direzione del soffitto) le nuvole sono il suo scranno. Al secretum ha avuto accesso l’erede suo alla Santa Sede in terra”. “Sia fatta la sua volontà”, concluse con tono più pacato, indicando la volta con un dito. Il diacono lo guardò intimorito, avvertì che era sopraggiunta la fine e che il vecchiardo era fuori di senno e vaneggiava, a proposito di fede, di soffitti, di dipinti, di nostro Signore. “Giovanni, mi dica, cos’ha detto il progenitore nostro, Adamo, a Padre nostro onnipotente quando gli è stato concesso di cogliere i segreti di nostro Signore?” Gli occhi vispi del diacono si soffermarono ad osservare l’uomo che, prima in preda al maligno, al delirio angoscioso e farneticante, appariva adesso affrancato, disteso, del tutto immune da ogni possibile minaccia o afflizione. Sorrise sornione e rispose: “Mi raccomando, l’asinello, non lasciarlo mai!”
(Dagli Scritti riservati della Cappella Sistina, frammento IV di un libriccino di Pietro Aretino andato perduto e poi ritrovato, anno domini 1517)
Tradotto da Milena Komadinić e Jovana Tutić